Perché insistiamo ad usare Facebook?

Traduzione dell’articolo comparso su Medium (ed originariamente sul blog dylan.tweney.com) di Dylan Tweney.
L’immagine di copertina è del blog di Amanda Scurti.

In breve: ci sono diverse ricerche che mostrano che Facebook fa sentire le persone di merda. Quindi magari, un giorno, le persone smetteranno di usarlo.

Il lungo saggio su Facebook di John Lanchester presente nella London Review of Books è stato condiviso molte volte nelle mie cerchie di amici; il direttore generale di Wired Nicholas Thompson l’ha definito “il più intenso e critico saggio su Facebook che abbia mai letto”.

Sebbene molti dei concetti affrontati siano abbastanza comuni (per esempio: se non lo stai pagando, non sei un cliente ma il prodotto), Lanchester mette in evidenza un paio di punti che mi hanno fatto impensierire. Una è la dichiarazione appena citata, e poi il fatto che l’uso di Facebook è correlato in modo negativo alla felicità.

Lanchester cita diversi studi a supporto della sua tesi:

  • American Journal of Epidemiology: ‘Association of Facebook Use with Compromised Well-Being: A Longitudinal Study’
  • Computers in Human Behaviour: ‘Facebook Use, Envy and Depression among College Students: Is Facebooking Depressing?’
  • Current Opinion in Psychiatry: ‘The Interplay between Facebook Use, Social Comparison, Envy and Depression’
  • Plos One: ‘Facebook Use Predicts Declines in Subjective Well-Being in Young Adults’
  • Cyberpsychology, Behavior and Social Networking: ‘The Facebook Experiment: Quitting Facebook Leads to Higher Levels of Well-Being’

E una domanda sorge spontanea: se Facebook rende le persone meno felici, e più lo usiamo meno più siamo infelici, perché il suo utilizzo continua a crescere? Non solo ci sono più persone che lo usano, ma una larga maggioranza lo guarda molte volte al giorno.

La mia esperienza è abbastanza correlata: più uso Facebook meno mi sento felice. Ma continuo a tornarci: lì trovo i miei amici, le organizzazioni che seguo e a cui partecipo scrivono informazioni utili (come ad esempio la scuola dei miei figli).

Usare i social network mi fa sentire più connesso, sebbene meno felice. In un ambiente suburbano frammentato, con meno opportunità di creare e mantenere amicizie a lungo termine; come genitore, con poco tempo per avere una vita sociale; come lavoratore a tempo pieno e pendolare – tutte  queste condizioni fanno sì che i social media siano l’interazione sociale che posso avere al di fuori della mia vita familiare e lavorativa.

È per questo che, nonostante cerchi occasionalmente di fare logout da Facebook e Twitter, nonostante abbia rimosso le loro applicazioni dai miei dispositivi per limitarmi nell’utilizzo, nonostante i miei tentativi di essere consapevole nell’utilizzo di questi siti e dei loro effetti sul mio umore, torno sempre sui miei passi.

Facebook offre un patto terribile: ti fornisce le connessioni che brami, ma non ti soddisfa e ti lascia con il desiderio di averne ancora. È come bere Coca Cola, o mangiare da McDonald’s, ma non devi pagare. Non è difficile immaginare che ci ingozziamo nonostante ci siano prove evidenti, anche ai nostri diretti occhi e cuori, che non è una cosa che fa bene.

Che mi porta al secondo argomento da cui non riesco a distogliere la mia attenzione: Lanchester dichiara che Facebook è di fatto la più grande società di sorveglianza di massa della storia.

Lo scopo di Facebook è di osservarti, e usare quello che apprende da te ed i tuoi comportamenti per venderti annunci pubblicitari. Non so se ci sia mai stata una così completa separazione tra quello che una compagnia dice di fare – “connettere”, “creare comunità” – e la realtà commerciale.

Quindi non solo Facebook non fa bene al mio umore, ma sto anche volontariamente foraggiando il suo apparato di sorveglianza con ogni tipo di dettaglio banale ma significante riguardo a quello che mi piace, che leggo, che seguo, la rete delle mie relazioni e così via. Ora mi sento anche peggio di prima.

Sto cercando un modo per utilizzare i social network che non mi faccia sentire di merda.

Il saggio comico su Twitter di Amanda Scurti è una lettura interessante. Si prende una pausa ma ritrova la sua strada indietro verso Twitter per via delle comunità creative di cui fa parte su quel social network, e per i valori che le forniscono: empatia, comprensione, comunicazione. Conclude dicendo che il segreto è sapere quando scollegarsi, ed usare Twitter responsabilmente, specialmente se hai un folto seguito.

Il discorso di Scurti è profondo e speranzoso ma ha una conclusione insoddisfacente. Per me Twitter è in qualche modo meno problematico di Facebook perché la sorveglianza di Twitter è molto meno efficace, grazie alla semplicità con cui si possono creare account secondari. Ma ho riscontrato che anche Twitter impatta sul mio umore come Facebook, e non posso dire di aver trovato delle comunità particolarmente favorevoli ad empatia e comunicazione.

In breve, sto ancora cercando un modo per condividere le idee e rimanere in contatto con le persone che mi piacciono, senza stare male.

Nel frattempo credo che mi possiate ancora trovare su Facebook e Twitter.

Fonte: John Lanchester reviews ‘The Attention Merchants’ by Tim Wu, ‘Chaos Monkeys’ by Antonio García Martínez and ‘Move Fast and Break Things’ by Jonathan Taplin · LRB 17 August 2017


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